TRASFORMAZIONE DIGITALE & SMART WORKING NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
VISIONI E PRATICHE
Prefazione di Federico Butera, postfazioni di Carlo Mochi Sismondi e Mariano Corso
La trasformazione digitale costituisce oggi una delle leve principali di change management nella Pubblica Amministrazione: una grande occasione cui l’emergenza sanitaria ha dato ulteriore spinta. Il tentativo fatto durante l’emergenza Covid di sostenere il passaggio verso servizi full digital, nuove forme di lavoro da remoto, hanno dimostrato da un lato l’inevitabilità del cambiamento atteso e, dall’altra, l’urgenza di realizzarlo in modo rapido e diffuso, per creare le condizioni di resilienza al contesto di mutamenti sociali ed economici in corso, nonché partorire la Pubblica Amministrazione di “nuova generazione”.
Per essere tale, la trasformazione digitale deve prevedere un ripensamento dei processi focalizzandosi su leadership, persone e competenze, dati e, in ultimo, tecnologia. Solo in questo modo può crescere l’efficienza, ma soprattutto il valore creato per i “clienti” e gli stakeholder esterni all’organizzazione.
Lo Smart Working è una delle punte dell’iceberg della trasformazione digitale e ne rappresenta l’emblema poiché richiede contemporaneamente di agire in modo radicale su organizzazione, management e risorse umane, struttura di programmazione, infrastruttura tecnologica, logistica e spazi. Un affondo al cuore delle organizzazioni per portarle a nuova vita.
Il libro offre una prospettiva multidisciplinare al tema, evidenziando prassi e norme della Pubblica Amministrazione italiana, proponendo soluzioni concrete basate sulle esperienze in corso (provenienti dal mondo pubblico e privato), evidenziandone gli aspetti critici e l’impatto potenziale, senza perdere di vista l’aspetto di vision e di realizzazione della nuova Pubblica Amministrazione, dal piccolo Comune alle grandi organizzazioni multidisciplinari.
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Le prospettive della normativa
Dal libro Trasformazione Digitale & Smart Working nella Pubblica Amministrazione (Maggioli 2021), pagg. 74 - 75
La fase 2 e quella a regime possono essere l’occasione per rivedere le fonti della regola-zione dello SW nella PA e, se del caso, ridefinire i ruoli degli attori in campo, amministrazioni, dipendenti e sindacati. Se nella fase a regime lo SW – superata la fase emergenziale e la finalità di presidio a tutela della salute della collettività – recupera le finalità originariamente previste dalla legge 81/2017, in termini di work-life balance e di incremento della competitività delle aziende, occorre verificare il ruolo degli elementi essenziali previsti dall’art. 18 della legge 81/2017, a cominciare dalla centralità dell’accordo individuale.
Nel sistema delle fonti del lavoro pubblico, per la fase a regime, l’accordo individuale è sovrastato dal POLA (previsto dall’art. 263 del D.L. 34/2020, come convertito dalla legge 77/2020), che costituisce l’atto generale di regolamentazione interna per l’organizzazione, le procedure e i criteri per l’accesso al lavoro agile. Il che potrebbe portare a regolamenti fotocopia da parte delle amministrazioni o, al contrario, a pericolose deviazioni dalle previsioni di tutela generale, in nome della specificità delle PA stesse. In questo quadro, il recupero della contrattazione di primo livello appare doverosa, con particolare riferimento alla disciplina generale di alcuni profili. Sull’orario di lavoro, la contrattazione collettiva potrebbe dare indicazioni in materia di fasce orarie o di reperibilità, nelle quali il dipendente può essere contattato dal dirigente. Per altro verso, potrebbero essere definiti criteri per disciplinare le modalità e la tempistica per la prestazione del dipendente in sede o per il suo rientro o far chiarezza sulla possibilità di effettuare missioni o servizi esterni anche nel corso di una giornata di smart working. La contrattazione collettiva potrebbe intervenire nell’individuazione di una disciplina comune in ordine all’annosa questione del riconoscimento dei buoni pasto durante una giornata di smart working. Ad oggi nella PA si registrano situazioni disomogenee, in quanto la disciplina è stata demandata dal Dipartimento di funzione pubblica alla contrattazione di secondo livello. In questo quadro, potrebbe definirsi meglio, inoltre, l’esercizio del diritto alla disconnessione, come limi-te massimo anche alla reperibilità, che oltre che strumento essenziale per il perseguimento della finalità di worklife balance costituisce un presidio fondamentale per la tutela della salute del dipendente. Sempre su questo fronte, la contrattazione potrebbe definire meglio i contorni del potere di controllo del datore di lavoro, sotto il profilo della verifica dei risultati conseguiti dal lavoratore in relazione agli obiettivi assegnati, ferma restando la disciplina prevista dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.
Nell’auspicare un maggiore spazio alla contrattazione collettiva, è importante anche non limitare i poteri datoriali, in quanto lo smart working presuppone flessibilità e adattabilità rispetto alla specifica organizzazione; in questo senso, è opportuno lasciare il campo alle regolamentazioni aziendali su aspetti organizzativi, quali ad esempio la definizione delle modalità di formazione, in linea con la previsione volta a rendere possibile l’apprendimento continuo dei lavoratori (art. 22), fattore abilitante e leva del cambiamento organizzativo.
Andromeda, i Big Data e la Leadership
Dal libro Trasformazione Digitale & Smart Working nella Pubblica Amministrazione (Maggioli 2021), pagg. 55 - 57
Come si vede le definizioni hanno sfumature diverse, ma quasi tutte contengono le prime tre “V” sopra inizialmente indicate. Il punto pero, al fine dell’argomento di questo libro, è capire se ha senso parlare di big data nel settore pubblico: molti autori sono convinti che ciò non sia possibile, quanto meno alle condizioni attuali: una pubblica amministrazione organizzata per silos che rendono estremamente difficile, se non impossibile, sviluppare un ecosistema di dati. E del resto se così non fosse oggi non parleremmo ancora di decertificazione o di necessita di accrescere l’interoperabilità delle banche dati.
Il problema è dato dal fatto che per generare i volumi e le altre caratteristiche, denominate dalle “V” sopra richiamate, il settore pubblico dovrebbe essere in grado innanzi tutto di armonizzare gli standard con cui i dati sono raccolti e collezionati, per poi vincere le resistenze alla condivisione degli stessi. Non solo: l’ecosistema spesso vede la presenza simultanea di pubblico e privato, ove l’armonizzazione e la condivisione è ancora più difficile. Tali barriere sono causate dalle competenze esclusive affidate a enti o agenzie, nonché alla convergenza della responsabilità in senso gerarchico verso l’altro, che spesso sviluppa una logica di ruolo e di appropriatezza che a sua volta porta alla diffidenza verso processi di condivisione.
A questo si aggiunge l’annoso tema delle competenze in ambito pubblico: la prevalenza di profili giuridici (e la contemporanea quasi assenza di profili matematici) porta a sviluppare enormemente i temi connessi ai profili di responsabilità nell’utilizzo dei dati (tema senz’altro cruciale), molto meno ad approfondire gli scenari d’uso e le possibilità che dall’uso (corretto) dei dati possono scaturire.
Per comprendere il senso degli ordini di grandezza quando parliamo di Big Data, comparando la nostra percezione della complessità del mondo dei primi anni 2000, possiamo fare riferimento al file che contiene il bilancio di un grande ente pubblico. Esso può pesare 100 Megabyte, oppure se includiamo le foto raggiungeremmo al massimo un Gigabyte, un ordine di circa 10^6 byte (se ci fermiamo ai MB), ove il byte è l’unita di misura dell’informazione seguendo un ordine decimale. Viceversa, uno Zettabyte, la soglia di volume oltre la quale si è soliti parlare di big data, e pari a 10^21 byte, diversi ordini di grandezza in più. Per fare un paragone possiamo immaginare di lavorare al programma spaziale Apollo negli anni sessanta del secolo scorso, la cui sfida era misurata nel raggiungimento della Luna, che si trova alla distanza dalla terra di circa 389.400 km, quindi circa 390 x 10^6 metri. Immaginate ora, che negli stessi anni, che mentre lavorate al programma Apollo qualcuno vi proponga di realizzare un programma per raggiungere Andromeda, la galassia più vicina alla nostra e verso cui ci stiamo dirigendo inerzialmente. Andromeda, a differenza della luna, è visibile solo con un telescopio che superi i 250 ingrandimenti, e dista 2,64 milioni di anni luce. Un anno luce e circa pari a 9,46 x 10^12 km, ossia quasi (ci si perdonino le approssimazioni) 10^15 metri. Siccome Andromeda è distante milioni di anni luce, ecco che arriviamo all’ordine di grandezza di 10^21. Sicuramente, se aveste lavorato al programma Apollo allora, ma anche oggi, vi sareste spaventati da un obiettivo del genere, non sapendo da che parte cominciare nel mettere in opera una simile sfida. Ma tant’è, questo è il mondo dei big data che ci si schiude davanti agli occhi, e per comprenderlo, occorre pensare in modo matematico.
(…)
In generale potremmo concludere la nostra breve trattazione dei Big Data applicati alla Pubblica Amministrazione citando il report della Capital City Foundation della città di New York del 2015, così da evitare di colpevolizzare solo le metropoli del nostro Paese: “le città vengono caricate dai dati, ma i dati in se stessi sono di poco valore (un foglio di calcolo con i dati del traffico non serve a nulla per combattere il traffico). Per avere un impatto hanno bisogno di essere uniti. C’è bisogno di persone con tempo, competenze e risorse per interpretare e cercare intuizioni nei dati. Soprattutto, i dati devono condurre l’azione su risultati che interessano veramente i cittadini. E per questo che essere guidati dai dati non è prioritariamente una sfida tecnologica, è una sfida della direzione dell’organizzazione e della leadership”.